Illuminarsi... d'Eterno
“La Parola zittì chiacchiere mie” (Clemente Rebora)
di Aldo G. Jatosti


Tra il calendario e me esiste da tempo un buon rapporto di collaborazione: io non gli faccio mancare tutte le segnalazioni ed in cambio vengo da lui informato delle date che riguardano la letteratura.
Un mesetto fa mi ha evidenziato il periodo intercorrente tra il 27 dicembre e il 6 febbraio. Aveva ragione: in questa sorta di quaresima più di un giorno richiama alla mente un evento legato a dei poeti.
Era il 27 dicembre 1917 quando un giovane soldatino, egiziano di nascita ma italiano d’origine, guardando dalla trincea sul Carso, sulle Alpi Giulie, giù, verso il Golfo di Trieste e rimirando la splendida città con il suo bianco Castello di Miramare, restò senza fiato. Di lì a poco trascrisse su un pezzo di carta: “Di fronte a tanta luce / con un breve moto di sguardo / m’illumino d’immenso”. Parole simboliche - oltreché dell’intera sua opera - di tutta la poesia italiana, non solo  “ermetica”. Sto parlando, ovviamente, di Giuseppe Ungaretti, il quale circa dodici anni dopo, “parlando” con Cristo lo avrebbe definito “pensoso palpito”. Siamo nello stesso periodo della conversione di Rebora, come vedremo in seguito. Come scriverà Albert Schweitzer, “ogni epoca ha trovato in Gesù i propri pensieri...” (J. Pelikan, Gesù nella storia, Laterza, Bari,1987, 6). D’altra parte l’artista, che è dotato di una speciale dote, grazie alla quale legge in fondo all’anima, non può non restare affascinato nel vedere espresso nel Cristo l’uomo nella sua compiutezza.
Nell’anno appena entrato giorno fatidico è il 22 di gennaio perché due grandi poeti del Novecento lasciarono questo mondo: Sandro Penna (n. 1906) e Giorgio Caproni (n. 1912). Il primo morì nel 1977, il secondo nel 1990. Sandro Penna non è facilmente ascrivibile ad una corrente  letteraria e si connota per la sua cifra autobiografica, con spiccata preferenza per la solitudine e la tristezza, come il lettore può riscontrare in questa poesia (tra le ultime) che dedicò a Eugenio Montale:  “La festa verso l’imbrunire vado /  in direzione opposta della folla / che allegra e svelta sorte dallo stadio. / Io non guardo nessuno e guardo tutti. / Un sorriso raccolgo ogni tanto, / più raramente un festoso saluto. / Ed io non mi ricordo più chi sono. / Allora di morire mi dispiace. / Di morire mi pare troppo ingiusto. / Anche se non ricordo più chi sono” (da Il viaggiatore insonne pubblicata postuma nel 1977. Versi endecasillabi).
Quanto a Giorgio Caproni, il forte impressionismo lirico dei primi testi un po’ alla volta fa spazio ad una dimensione oggettiva, paesaggistica, nella quale personaggi e temi maturano gradualmente. Fu definito da Carlo Bo “poeta del sole, della luce, del mare” della terra ligure. Ciò lo porterà a ricorrere sempre più spesso a motivi autobiografici (la sua donna “Rina”, suo amore - in specie dopo la morte...). Proprio di una lunga poesia (“Canzone”) dedicata a sua madre (Anna Picchi), prendo la prima “strofa”: “Anima mia, fa’ in fretta. / Ti presto la bicicletta, / ma corri. E con la gente / (ti prego, sii prudente) / non ti fermare a parlare / smettendo di pedalare.... (Da “Il seme del piangere (1954). Pubblicata su “L’approdo letterario”).
All’inizio del 1929 avviene la conversione cattolica di Clemente Rebora, uno dei maggiori poeti del Novecento. Era nato a Milano, in una famiglia agiata, laica, repubblicana che lo avvia agli studi, fino alla laurea. Insegna materie letterarie mentre collabora con “La Voce”. Richiamato alle armi (1a Guerra mondiale) ma congedato per motivi di salute nel 1915, lascia la compagna (la pianista russa Lydia Natus) e, convertitosi al cattolicesimo, entra come novizio nel 1932 tra i Rosminiani del Monte Calvario di Domodossola. E’ una data fondamentale per la vita di Rebora, anche poeta,perché la nuova condizione comporta - almeno per lui - un drastico rifiuto dell’attività letteraria. Solo prima della morte (1956) consentirà al fratello di pubblicare tutto l’inedito.
Alla base della poesia di Rebora c’è la consapevolezza della crisi storica e, quindi, dall’esigenza di trovare una soluzione (quantomeno, di cercarla) al conflitto che travaglia l’uomo contemporaneo, chiuso nella contraddizione di un sistema sociale che dal percorso tecnologico riceve “anche” un grado sempre crescente di alienazione.
Quando poc’anzi ho scritto “almeno per lui” intendevo riferirmi ad altri religiosi (per es. don Milani, e - in ambito poetico - specialmente a p. David Maria Turoldo). Anzi per i critici è una consuetudine, quasi una via obbligata parlare di Rebora e pensare a Turoldo e viceversa. Per esempio, se ci soffermiamo sulle rispettive stagioni premortali, ambedue riprendono a scrivere dopo una considerevole pausa. Per l’uno e per l’altro la fonte ispiratrice è la morte incombente, è “la Camusa”, come la apostrofa Cirano (E. Rostand, Cirano di Bergerac, atto V, scena VI).
Turoldo morirà a causa di un tumore (da lui chiamato “il Drago”), Rebora a causa di una incurabile paralisi progressiva, che l’avrebbe letteralmente consumato sul suo letto di infermità. “Inerme e informe giaccio con me stesso / (scrive nella poesia “Santa Comunione”), inerme Gesù all’universo intende, / pensier ha pur di me confitto in letto; / e muove e tempo e gente, onde fedele / con l’Ostia amante giunge nel mio petto” (C. Rebora, Canti dell’infermità, 1957). Oltre alla morte ispiratrice, c’è un altro nucleo tematico ad accomunare i due poeti: sono ambedue veneti. Ciò non vuol dire inesistenza di difformità. Per esempio, mentre Turoldo conobbe il successo presto e numerose volte, Rebora ebbe un solo riconoscimento: il Premio “Cittadella”, nel 1956, ovvero  l’anno della morte, per il suo Curriculum vitae. Una nota umana: a comunicargli la notizia fu il suo infermiere ed il poeta pianse di gioia! Ambedue poeti in limine mortis - durante il quale offrono la più intransigente e sublime fedeltà a Dio - il loro verso trova espressioni di scoperta testimonianza cristiana in una umanità più travagliata della passione.
E, tuttavia, a parte le consonanze delle umane vicende (la malattia), le intenzioni ed i motivi poetici non sono identici. In Turoldo il canto è “necessità” ed il male è prendere atto dell’impotenza “a dire il tuo dramma, mio Dio” ed anche “ti raggiunga il canto del cuore / che colmerà l’abisso” (“E dunque”, in “Canti ultimi”). La vita intera di Turoldo ha solo una valenza ed un fine: lodare, cantandolo, Dio. I momenti, le vicissitudini, gli atomi, gli stati d’animo saranno diversi come pure le “mode” potranno avere maggiore o minore incidenza: il percorso è quello del sacro Ordine, della dedizione a Cristo “pensoso palpito”. In Rebora il percorso umano fu diverso: prima di prorompere in “la Parola zittì chiacchiere mie” (Curriculum vitae, 1955) era vissuto come laico. Un legame affettivo, impegni civili ed intellettuali, traduzioni dal russo - per maestra aveva la sua compagna Lydia Natus: nel 1920 uscì la traduzione de”La felicità domestica” di Tolstoj, Edizioni “Libreria della Voce”, Firenze. Successivamente Rebora tradusse testi di Andreev e di Gogol, conferenze, tenute non solo a Milano, su argomenti pedagogici e filosofici, nelle quali esprimeva una visione piuttosto sincretica della spiritualità dell’uomo tra idealismo crociano e spiritualità mazziniana, oltre ad influenze dello yoga, del buddismo oltreché della teosofia. In questo periodo in lui “non c’è sostituzione fra Dio e poesia: c’è negazione del secondo termine, c’è scelta umana e sofferta” (G. Scalise, Testimonianza e poesia. David Maria Turoldo, Edizioni del noce, Camposampiero (PD), 1993, 23). Come si vede il poeta è molto, molto lontano da quell’”io” che gli ispirerà questi versi: “Quando si nutre il cuore / un nulla è riso pieno, / quando s’accende il cuore / un nulla è ciel sereno. / Quando s’eleva il cuore / all’amoroso dono / non più s’inventan gli uomini / ma sono” (A. Levi, Cristo mia dolce rovina, Ed. Paoline, Milano, 1996, 100).
Concludo con un ricordo personale. Se non ho avuto la gioia di incontrare Clemente Rebora (quando egli morì io ero appena ventenne e a centinaia di chilometri da lui), ho avuto l’emozione di conoscere e di parlare con Turoldo di poesia ed altro. Egli mi aveva premiato come “poeta religioso” nel più importante concorso nazionale biennale (era la prima volta in assoluto che mi ero cimentato in un premio di tale risonanza (Il premio era il “Camposampiero”, l’anno il 1986. I brani che qui riporto sono pubblicati in Testimonianza e poesia, op. cit., pp. 251-255, passim). A pranzo mi volle accanto a sé, per parlarmi, per vincere la mia ritrosia, i miei dubbi circa il mio “futuro di poeta”. «Con quel vocione soave padre David mi disse tante cose: di sé, della sua vita (...) A mano a mano che questa rivo di parole defluiva da lui a me, vedevo chiari i problemi, anche quelli di ordine più vasto, esorbitanti il mio ego (...). Rampognandomi per la mia timidezza, per la mia riluttanza (“Ma padre, io non sono all’altezza... ho solo confidato alle carte qualche mio cruccio...”), mi disse: “Le tue poesie, perché le hai tenute tutto questo tempo nel cassetto? Sei egoista: devi pubblicare! (...) Non hai orecchie? non senti che Lui ti canta dentro? (...) “Sono fuori del coro... sarei di scandalo!...”. Egli tagliò corto, perentorio, non ammettendo replica: “E’ una vita che io sono di continuo scandalo!”... Brusco, ma suadente mi spiegò che le liriche gli erano piaciute “ma proprio tanto” anzi gli erano “care” perché si identificavano con la sua poetica (che io ignoravo ...): i richiami biblici (Antico Testamento - i Salmi, soprattutto - ed il Nuovo, con la dolce e tremenda figura del Cristo); la morte, evocata e  accettata come epifania pasquale, segno del fine più che della fine dell’esistenza terrena; la madre, infine, nella duplice accezione del radicamente (hic et nunc) (...)» Da quel giorno non ho più rivisto p. David. Mentre egli procedeva nel solco del Signore, io imparavo a dare maggiore peso alle cose di cui mi parlò.

Tra il calendario e me esiste da tempo un buon rapporto di collaborazione: io non gli faccio mancare tutte le segnalazioni ed in cambio vengo da lui informato delle date che riguardano la letteratura.
Un mesetto fa mi ha evidenziato il periodo intercorrente tra il 27 dicembre e il 6 febbraio. Aveva ragione: in questa sorta di quaresima più di un giorno richiama alla mente un evento legato a dei poeti.
Era il 27 dicembre 1917 quando un giovane soldatino, egiziano di nascita ma italiano d’origine, guardando dalla trincea sul Carso, sulle Alpi Giulie, giù, verso il Golfo di Trieste e rimirando la splendida città con il suo bianco Castello di Miramare, restò senza fiato. Di lì a poco trascrisse su un pezzo di carta: “Di fronte a tanta luce / con un breve moto di sguardo / m’illumino d’immenso”. Parole simboliche - oltreché dell’intera sua opera - di tutta la poesia italiana, non solo  “ermetica”. Sto parlando, ovviamente, di Giuseppe Ungaretti, il quale circa dodici anni dopo, “parlando” con Cristo lo avrebbe definito “pensoso palpito”. Siamo nello stesso periodo della conversione di Rebora, come vedremo in seguito. Come scriverà Albert Schweitzer, “ogni epoca ha trovato in Gesù i propri pensieri...” (J. Pelikan, Gesù nella storia, Laterza, Bari,1987, 6). D’altra parte l’artista, che è dotato di una speciale dote, grazie alla quale legge in fondo all’anima, non può non restare affascinato nel vedere espresso nel Cristo l’uomo nella sua compiutezza.
Nell’anno appena entrato giorno fatidico è il 22 di gennaio perché due grandi poeti del Novecento lasciarono questo mondo: Sandro Penna (n. 1906) e Giorgio Caproni (n. 1912). Il primo morì nel 1977, il secondo nel 1990. Sandro Penna non è facilmente ascrivibile ad una corrente  letteraria e si connota per la sua cifra autobiografica, con spiccata preferenza per la solitudine e la tristezza, come il lettore può riscontrare in questa poesia (tra le ultime) che dedicò a Eugenio Montale:  “La festa verso l’imbrunire vado /  in direzione opposta della folla / che allegra e svelta sorte dallo stadio. / Io non guardo nessuno e guardo tutti. / Un sorriso raccolgo ogni tanto, / più raramente un festoso saluto. / Ed io non mi ricordo più chi sono. / Allora di morire mi dispiace. / Di morire mi pare troppo ingiusto. / Anche se non ricordo più chi sono” (da Il viaggiatore insonne pubblicata postuma nel 1977. Versi endecasillabi).
Quanto a Giorgio Caproni, il forte impressionismo lirico dei primi testi un po’ alla volta fa spazio ad una dimensione oggettiva, paesaggistica, nella quale personaggi e temi maturano gradualmente. Fu definito da Carlo Bo “poeta del sole, della luce, del mare” della terra ligure. Ciò lo porterà a ricorrere sempre più spesso a motivi autobiografici (la sua donna “Rina”, suo amore - in specie dopo la morte...). Proprio di una lunga poesia (“Canzone”) dedicata a sua madre (Anna Picchi), prendo la prima “strofa”: “Anima mia, fa’ in fretta. / Ti presto la bicicletta, / ma corri. E con la gente / (ti prego, sii prudente) / non ti fermare a parlare / smettendo di pedalare.... (Da “Il seme del piangere (1954). Pubblicata su “L’approdo letterario”).
All’inizio del 1929 avviene la conversione cattolica di Clemente Rebora, uno dei maggiori poeti del Novecento. Era nato a Milano, in una famiglia agiata, laica, repubblicana che lo avvia agli studi, fino alla laurea. Insegna materie letterarie mentre collabora con “La Voce”. Richiamato alle armi (1a Guerra mondiale) ma congedato per motivi di salute nel 1915, lascia la compagna (la pianista russa Lydia Natus) e, convertitosi al cattolicesimo, entra come novizio nel 1932 tra i Rosminiani del Monte Calvario di Domodossola. E’ una data fondamentale per la vita di Rebora, anche poeta,perché la nuova condizione comporta - almeno per lui - un drastico rifiuto dell’attività letteraria. Solo prima della morte (1956) consentirà al fratello di pubblicare tutto l’inedito.
Alla base della poesia di Rebora c’è la consapevolezza della crisi storica e, quindi, dall’esigenza di trovare una soluzione (quantomeno, di cercarla) al conflitto che travaglia l’uomo contemporaneo, chiuso nella contraddizione di un sistema sociale che dal percorso tecnologico riceve “anche” un grado sempre crescente di alienazione.
Quando poc’anzi ho scritto “almeno per lui” intendevo riferirmi ad altri religiosi (per es. don Milani, e - in ambito poetico - specialmente a p. David Maria Turoldo). Anzi per i critici è una consuetudine, quasi una via obbligata parlare di Rebora e pensare a Turoldo e viceversa. Per esempio, se ci soffermiamo sulle rispettive stagioni premortali, ambedue riprendono a scrivere dopo una considerevole pausa. Per l’uno e per l’altro la fonte ispiratrice è la morte incombente, è “la Camusa”, come la apostrofa Cirano (E. Rostand, Cirano di Bergerac, atto V, scena VI).
Turoldo morirà a causa di un tumore (da lui chiamato “il Drago”), Rebora a causa di una incurabile paralisi progressiva, che l’avrebbe letteralmente consumato sul suo letto di infermità. “Inerme e informe giaccio con me stesso / (scrive nella poesia “Santa Comunione”), inerme Gesù all’universo intende, / pensier ha pur di me confitto in letto; / e muove e tempo e gente, onde fedele / con l’Ostia amante giunge nel mio petto” (C. Rebora, Canti dell’infermità, 1957). Oltre alla morte ispiratrice, c’è un altro nucleo tematico ad accomunare i due poeti: sono ambedue veneti. Ciò non vuol dire inesistenza di difformità. Per esempio, mentre Turoldo conobbe il successo presto e numerose volte, Rebora ebbe un solo riconoscimento: il Premio “Cittadella”, nel 1956, ovvero  l’anno della morte, per il suo Curriculum vitae. Una nota umana: a comunicargli la notizia fu il suo infermiere ed il poeta pianse di gioia! Ambedue poeti in limine mortis - durante il quale offrono la più intransigente e sublime fedeltà a Dio - il loro verso trova espressioni di scoperta testimonianza cristiana in una umanità più travagliata della passione.
E, tuttavia, a parte le consonanze delle umane vicende (la malattia), le intenzioni ed i motivi poetici non sono identici. In Turoldo il canto è “necessità” ed il male è prendere atto dell’impotenza “a dire il tuo dramma, mio Dio” ed anche “ti raggiunga il canto del cuore / che colmerà l’abisso” (“E dunque”, in “Canti ultimi”). La vita intera di Turoldo ha solo una valenza ed un fine: lodare, cantandolo, Dio. I momenti, le vicissitudini, gli atomi, gli stati d’animo saranno diversi come pure le “mode” potranno avere maggiore o minore incidenza: il percorso è quello del sacro Ordine, della dedizione a Cristo “pensoso palpito”. In Rebora il percorso umano fu diverso: prima di prorompere in “la Parola zittì chiacchiere mie” (Curriculum vitae, 1955) era vissuto come laico. Un legame affettivo, impegni civili ed intellettuali, traduzioni dal russo - per maestra aveva la sua compagna Lydia Natus: nel 1920 uscì la traduzione de”La felicità domestica” di Tolstoj, Edizioni “Libreria della Voce”, Firenze. Successivamente Rebora tradusse testi di Andreev e di Gogol, conferenze, tenute non solo a Milano, su argomenti pedagogici e filosofici, nelle quali esprimeva una visione piuttosto sincretica della spiritualità dell’uomo tra idealismo crociano e spiritualità mazziniana, oltre ad influenze dello yoga, del buddismo oltreché della teosofia. In questo periodo in lui “non c’è sostituzione fra Dio e poesia: c’è negazione del secondo termine, c’è scelta umana e sofferta” (G. Scalise, Testimonianza e poesia. David Maria Turoldo, Edizioni del noce, Camposampiero (PD), 1993, 23). Come si vede il poeta è molto, molto lontano da quell’”io” che gli ispirerà questi versi: “Quando si nutre il cuore / un nulla è riso pieno, / quando s’accende il cuore / un nulla è ciel sereno. / Quando s’eleva il cuore / all’amoroso dono / non più s’inventan gli uomini / ma sono” (A. Levi, Cristo mia dolce rovina, Ed. Paoline, Milano, 1996, 100).
Concludo con un ricordo personale. Se non ho avuto la gioia di incontrare Clemente Rebora (quando egli morì io ero appena ventenne e a centinaia di chilometri da lui), ho avuto l’emozione di conoscere e di parlare con Turoldo di poesia ed altro. Egli mi aveva premiato come “poeta religioso” nel più importante concorso nazionale biennale (era la prima volta in assoluto che mi ero cimentato in un premio di tale risonanza (Il premio era il “Camposampiero”, l’anno il 1986. I brani che qui riporto sono pubblicati in Testimonianza e poesia, op. cit., pp. 251-255, passim). A pranzo mi volle accanto a sé, per parlarmi, per vincere la mia ritrosia, i miei dubbi circa il mio “futuro di poeta”. «Con quel vocione soave padre David mi disse tante cose: di sé, della sua vita (...) A mano a mano che questa rivo di parole defluiva da lui a me, vedevo chiari i problemi, anche quelli di ordine più vasto, esorbitanti il mio ego (...). Rampognandomi per la mia timidezza, per la mia riluttanza (“Ma padre, io non sono all’altezza... ho solo confidato alle carte qualche mio cruccio...”), mi disse: “Le tue poesie, perché le hai tenute tutto questo tempo nel cassetto? Sei egoista: devi pubblicare! (...) Non hai orecchie? non senti che Lui ti canta dentro? (...) “Sono fuori del coro... sarei di scandalo!...”. Egli tagliò corto, perentorio, non ammettendo replica: “E’ una vita che io sono di continuo scandalo!”... Brusco, ma suadente mi spiegò che le liriche gli erano piaciute “ma proprio tanto” anzi gli erano “care” perché si identificavano con la sua poetica (che io ignoravo ...): i richiami biblici (Antico Testamento - i Salmi, soprattutto - ed il Nuovo, con la dolce e tremenda figura del Cristo); la morte, evocata e  accettata come epifania pasquale, segno del fine più che della fine dell’esistenza terrena; la madre, infine, nella duplice accezione del radicamente (hic et nunc) (...)» Da quel giorno non ho più rivisto p. David. Mentre egli procedeva nel solco del Signore, io imparavo a dare maggiore peso alle cose di cui mi parlò.

Tra il calendario e me esiste da tempo un buon rapporto di collaborazione: io non gli faccio mancare tutte le segnalazioni ed in cambio vengo da lui informato delle date che riguardano la letteratura.
Un mesetto fa mi ha evidenziato il periodo intercorrente tra il 27 dicembre e il 6 febbraio. Aveva ragione: in questa sorta di quaresima più di un giorno richiama alla mente un evento legato a dei poeti.
Era il 27 dicembre 1917 quando un giovane soldatino, egiziano di nascita ma italiano d’origine, guardando dalla trincea sul Carso, sulle Alpi Giulie, giù, verso il Golfo di Trieste e rimirando la splendida città con il suo bianco Castello di Miramare, restò senza fiato. Di lì a poco trascrisse su un pezzo di carta: “Di fronte a tanta luce / con un breve moto di sguardo / m’illumino d’immenso”. Parole simboliche - oltreché dell’intera sua opera - di tutta la poesia italiana, non solo  “ermetica”. Sto parlando, ovviamente, di Giuseppe Ungaretti, il quale circa dodici anni dopo, “parlando” con Cristo lo avrebbe definito “pensoso palpito”. Siamo nello stesso periodo della conversione di Rebora, come vedremo in seguito. Come scriverà Albert Schweitzer, “ogni epoca ha trovato in Gesù i propri pensieri...” (J. Pelikan, Gesù nella storia, Laterza, Bari,1987, 6). D’altra parte l’artista, che è dotato di una speciale dote, grazie alla quale legge in fondo all’anima, non può non restare affascinato nel vedere espresso nel Cristo l’uomo nella sua compiutezza.
Nell’anno appena entrato giorno fatidico è il 22 di gennaio perché due grandi poeti del Novecento lasciarono questo mondo: Sandro Penna (n. 1906) e Giorgio Caproni (n. 1912). Il primo morì nel 1977, il secondo nel 1990. Sandro Penna non è facilmente ascrivibile ad una corrente  letteraria e si connota per la sua cifra autobiografica, con spiccata preferenza per la solitudine e la tristezza, come il lettore può riscontrare in questa poesia (tra le ultime) che dedicò a Eugenio Montale:  “La festa verso l’imbrunire vado /  in direzione opposta della folla / che allegra e svelta sorte dallo stadio. / Io non guardo nessuno e guardo tutti. / Un sorriso raccolgo ogni tanto, / più raramente un festoso saluto. / Ed io non mi ricordo più chi sono. / Allora di morire mi dispiace. / Di morire mi pare troppo ingiusto. / Anche se non ricordo più chi sono” (da Il viaggiatore insonne pubblicata postuma nel 1977. Versi endecasillabi).
Quanto a Giorgio Caproni, il forte impressionismo lirico dei primi testi un po’ alla volta fa spazio ad una dimensione oggettiva, paesaggistica, nella quale personaggi e temi maturano gradualmente. Fu definito da Carlo Bo “poeta del sole, della luce, del mare” della terra ligure. Ciò lo porterà a ricorrere sempre più spesso a motivi autobiografici (la sua donna “Rina”, suo amore - in specie dopo la morte...). Proprio di una lunga poesia (“Canzone”) dedicata a sua madre (Anna Picchi), prendo la prima “strofa”: “Anima mia, fa’ in fretta. / Ti presto la bicicletta, / ma corri. E con la gente / (ti prego, sii prudente) / non ti fermare a parlare / smettendo di pedalare.... (Da “Il seme del piangere (1954). Pubblicata su “L’approdo letterario”).
All’inizio del 1929 avviene la conversione cattolica di Clemente Rebora, uno dei maggiori poeti del Novecento. Era nato a Milano, in una famiglia agiata, laica, repubblicana che lo avvia agli studi, fino alla laurea. Insegna materie letterarie mentre collabora con “La Voce”. Richiamato alle armi (1a Guerra mondiale) ma congedato per motivi di salute nel 1915, lascia la compagna (la pianista russa Lydia Natus) e, convertitosi al cattolicesimo, entra come novizio nel 1932 tra i Rosminiani del Monte Calvario di Domodossola. E’ una data fondamentale per la vita di Rebora, anche poeta,perché la nuova condizione comporta - almeno per lui - un drastico rifiuto dell’attività letteraria. Solo prima della morte (1956) consentirà al fratello di pubblicare tutto l’inedito.
Alla base della poesia di Rebora c’è la consapevolezza della crisi storica e, quindi, dall’esigenza di trovare una soluzione (quantomeno, di cercarla) al conflitto che travaglia l’uomo contemporaneo, chiuso nella contraddizione di un sistema sociale che dal percorso tecnologico riceve “anche” un grado sempre crescente di alienazione.
Quando poc’anzi ho scritto “almeno per lui” intendevo riferirmi ad altri religiosi (per es. don Milani, e - in ambito poetico - specialmente a p. David Maria Turoldo). Anzi per i critici è una consuetudine, quasi una via obbligata parlare di Rebora e pensare a Turoldo e viceversa. Per esempio, se ci soffermiamo sulle rispettive stagioni premortali, ambedue riprendono a scrivere dopo una considerevole pausa. Per l’uno e per l’altro la fonte ispiratrice è la morte incombente, è “la Camusa”, come la apostrofa Cirano (E. Rostand, Cirano di Bergerac, atto V, scena VI).
Turoldo morirà a causa di un tumore (da lui chiamato “il Drago”), Rebora a causa di una incurabile paralisi progressiva, che l’avrebbe letteralmente consumato sul suo letto di infermità. “Inerme e informe giaccio con me stesso / (scrive nella poesia “Santa Comunione”), inerme Gesù all’universo intende, / pensier ha pur di me confitto in letto; / e muove e tempo e gente, onde fedele / con l’Ostia amante giunge nel mio petto” (C. Rebora, Canti dell’infermità, 1957). Oltre alla morte ispiratrice, c’è un altro nucleo tematico ad accomunare i due poeti: sono ambedue veneti. Ciò non vuol dire inesistenza di difformità. Per esempio, mentre Turoldo conobbe il successo presto e numerose volte, Rebora ebbe un solo riconoscimento: il Premio “Cittadella”, nel 1956, ovvero  l’anno della morte, per il suo Curriculum vitae. Una nota umana: a comunicargli la notizia fu il suo infermiere ed il poeta pianse di gioia! Ambedue poeti in limine mortis - durante il quale offrono la più intransigente e sublime fedeltà a Dio - il loro verso trova espressioni di scoperta testimonianza cristiana in una umanità più travagliata della passione.
E, tuttavia, a parte le consonanze delle umane vicende (la malattia), le intenzioni ed i motivi poetici non sono identici. In Turoldo il canto è “necessità” ed il male è prendere atto dell’impotenza “a dire il tuo dramma, mio Dio” ed anche “ti raggiunga il canto del cuore / che colmerà l’abisso” (“E dunque”, in “Canti ultimi”). La vita intera di Turoldo ha solo una valenza ed un fine: lodare, cantandolo, Dio. I momenti, le vicissitudini, gli atomi, gli stati d’animo saranno diversi come pure le “mode” potranno avere maggiore o minore incidenza: il percorso è quello del sacro Ordine, della dedizione a Cristo “pensoso palpito”. In Rebora il percorso umano fu diverso: prima di prorompere in “la Parola zittì chiacchiere mie” (Curriculum vitae, 1955) era vissuto come laico. Un legame affettivo, impegni civili ed intellettuali, traduzioni dal russo - per maestra aveva la sua compagna Lydia Natus: nel 1920 uscì la traduzione de”La felicità domestica” di Tolstoj, Edizioni “Libreria della Voce”, Firenze. Successivamente Rebora tradusse testi di Andreev e di Gogol, conferenze, tenute non solo a Milano, su argomenti pedagogici e filosofici, nelle quali esprimeva una visione piuttosto sincretica della spiritualità dell’uomo tra idealismo crociano e spiritualità mazziniana, oltre ad influenze dello yoga, del buddismo oltreché della teosofia. In questo periodo in lui “non c’è sostituzione fra Dio e poesia: c’è negazione del secondo termine, c’è scelta umana e sofferta” (G. Scalise, Testimonianza e poesia. David Maria Turoldo, Edizioni del noce, Camposampiero (PD), 1993, 23). Come si vede il poeta è molto, molto lontano da quell’”io” che gli ispirerà questi versi: “Quando si nutre il cuore / un nulla è riso pieno, / quando s’accende il cuore / un nulla è ciel sereno. / Quando s’eleva il cuore / all’amoroso dono / non più s’inventan gli uomini / ma sono” (A. Levi, Cristo mia dolce rovina, Ed. Paoline, Milano, 1996, 100).
Concludo con un ricordo personale. Se non ho avuto la gioia di incontrare Clemente Rebora (quando egli morì io ero appena ventenne e a centinaia di chilometri da lui), ho avuto l’emozione di conoscere e di parlare con Turoldo di poesia ed altro. Egli mi aveva premiato come “poeta religioso” nel più importante concorso nazionale biennale (era la prima volta in assoluto che mi ero cimentato in un premio di tale risonanza (Il premio era il “Camposampiero”, l’anno il 1986. I brani che qui riporto sono pubblicati in Testimonianza e poesia, op. cit., pp. 251-255, passim). A pranzo mi volle accanto a sé, per parlarmi, per vincere la mia ritrosia, i miei dubbi circa il mio “futuro di poeta”. «Con quel vocione soave padre David mi disse tante cose: di sé, della sua vita (...) A mano a mano che questa rivo di parole defluiva da lui a me, vedevo chiari i problemi, anche quelli di ordine più vasto, esorbitanti il mio ego (...). Rampognandomi per la mia timidezza, per la mia riluttanza (“Ma padre, io non sono all’altezza... ho solo confidato alle carte qualche mio cruccio...”), mi disse: “Le tue poesie, perché le hai tenute tutto questo tempo nel cassetto? Sei egoista: devi pubblicare! (...) Non hai orecchie? non senti che Lui ti canta dentro? (...) “Sono fuori del coro... sarei di scandalo!...”. Egli tagliò corto, perentorio, non ammettendo replica: “E’ una vita che io sono di continuo scandalo!”... Brusco, ma suadente mi spiegò che le liriche gli erano piaciute “ma proprio tanto” anzi gli erano “care” perché si identificavano con la sua poetica (che io ignoravo ...): i richiami biblici (Antico Testamento - i Salmi, soprattutto - ed il Nuovo, con la dolce e tremenda figura del Cristo); la morte, evocata e  accettata come epifania pasquale, segno del fine più che della fine dell’esistenza terrena; la madre, infine, nella duplice accezione del radicamente (hic et nunc) (...)» Da quel giorno non ho più rivisto p. David. Mentre egli procedeva nel solco del Signore, io imparavo a dare maggiore peso alle cose di cui mi parlò.


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